Quanto è difficile fare le cose difficili
Lettera ai bambini
È difficile fare
le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate
a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi.
G. Rodari
Lo scorso venerdì Gianni Rodari avrebbe compiuto 100 anni, così questa Psicobricka la vogliamo dedicare a lui.
Cosa già vista e già fatta, direte.
Si, è vero. Ma questa Lettera ai bambini, appesa alle pareti delle scale che portano in LaLudo, è risuonata nelle nostre teste, catturando il nostro sguardo e la nostra attenzione, perché sembra fatta apposta per queste giornate incerte. Sono tempi questi in cui molte cose ci sembrano più difficili del solito, dove anche l’azione più semplice, come giocare con gli amici, bersi un caffè in compagnia, condividere una cena, risulta complicata. E come parlare di questa complessità ai più piccoli? Come restituire loro una fotografia di questa quotidianità senza appesantirla o alleggerirla troppo?
In mediō stat virtus, dicevano i latini (la verità sta nel mezzo) e forse non avevano tutti i torti. Purtroppo, però, trovare la giusta metà non è cosa semplice.
Cosa dire?
Cosa non dire?
Come dirlo?
Una cosa è certa: i bambini hanno bisogno di conoscere le cose per quelle che sono. Le bugie hanno le gambe corte, così come le cose non dette. Perché? Perché i bambini hanno la capacità di cogliere anche quello che viene taciuto, sanno guardare negli occhi di mamma e papà e capire che qualcosa non va, e mentire “per il loro bene” rischierebbe di portare nient’altro che confusione.
Proviamo con un esempio.
Giulia è appena uscita da scuola. È felice, è stata una bella giornata! Ad attenderla c’è la mamma, tornata anche lei da lavoro, ma la sua mattinata non è stata altrettanto bella come quella di Giulia: il Covid-19 sta mettendo a rischio il suo posto di lavoro ed il pensiero non le dà pace. È cupa e pensierosa.
Giulia, uscendo dal cancello della scuola, la vede da lontano. Saluta le sue amiche e si precipita verso la mamma, che la accoglie a braccia aperte, sorridendo. Assieme si avviano alla macchina ed iniziano le domande, espresse con affetto: “Come stai?” “Com’è andata a scuola?”.
La mamma cerca di non dar peso ai propri pensieri, anche se sono ancora lì, pesanti, e tenta di concentrarsi su Giulia che la guarda dal basso con i suoi occhietti vispi.
La bimba racconta la sua mattinata mentre la mamma la ascolta.
E' un continuo rimbalzare di parole e pensieri:
(Giulia: “La mamma sembra un po’ triste oggi… è un po’ strana. Forse si aspettava che le raccontassi dell’altro, o che prendessi ottimo nella verifica, non distinto…!”)
Giulia ha finito di descrivere la sua mattinata così, una volta salita in auto chiede alla mamma: “E tu mamma come stai?”
(Mamma: “Che brava la mia bambina! Ha preso distinto! Certo che, però, tutte queste preoccupazioni non mi danno tregua, ma non posso nemmeno riversarle su di lei... sono cose mie.”)
Così la mamma, distogliendo appena lo sguardo dalla strada, le risponde: “Che brava!! Io bene, tesoro! Sono solo un po’ stanca.”
(Giulia: “Mmmh… Non ci credo che sono stata brava… guarda che faccia che ha…! E non ci credo che sia solo stanca: anche io sono stanca, a volte, ma non per questo sono triste.”)
(Mamma: “Vedi?! Ho fatto bene a non dirle le cose come stanno. Devo proteggerla.”)
Così la mamma riporta lo sguardo alla strada e Giulia si mette a giocherellare con l’elastico che tiene al polso. Entrambe ritornano ai loro pensieri, perché, a quanto pare è lì che devono restare. O forse no…?
Con tutti i limiti dell’esempio, ci troviamo davanti ad uno scambio di pensieri e battute, dove non c’è congruenza tra ciò che viene detto e non detto, portando mamma e figlia a comprendere in maniera sbagliata ed incompleta lo stato d’animo dell’altra. Il risultato è l’incomprensione.
Vi state chiedendo se la mamma avrebbe dovuto raccontare a Giulia per filo e per segno quello che le passava per la mente? La risposta è no. In mediō stat virtus, dicevamo.
La mamma avrebbe potuto dire “Che brava!! Forse mi vedi un po’ pensierosa e preoccupata per via del lavoro, ed effettivamente è così. A te non capita mai di esserlo?” A quel punto Giulia avrebbe potuto pensare a tutte quelle volte che si era sentita a quel modo, mettendo da parte il timore di essere lei a contribuire allo stato d’animo della mamma, comprendendo che è normale sentirsi tristi, preoccupati, arrabbiati quando la situazione mette nelle condizioni di esserlo.
Dire ad un bambino come stanno le cose significa permettergli di decifrare le emozioni, di sperimentarle, di normalizzarle, di riconoscerle nell’altro, perché non si è troppo grandi o troppo piccoli per provarle. E forse è proprio questa la prima grande palestra nella quale imparare a fare le cose difficili.
Dott.ssa Martina Sivieri
Photo by James Wheeler on Unsplash